Di Mara Monti e Luca Ponzi
Anni fa mia figlia, che vive a Lugano, mi telefonò avvertendomi che aveva smarrito, o le avevano rubato, il portafoglio Gucci originale, in cui, nei numerosi scomparti, teneva, oltre ai soldi, tutti i suoi documenti d’identificazione, ed un’infinità di carte di credito…e mi pregava di ricomprargliene uno d’imitazione, cinese, di quelliche si vendono per strada da parte dei cosiddetti “Vuò cumprà”. Insieme alle sue amiche aveva constatato, infatti, che quelle imitazioni, oltre a costare infinitamente meno, erano “migliori” degli originali. Non entro nel merito, ma pensai che quella merce poteva benissimo essere venduta legalmente se, invece che col marchio di Gucci, fosse stata firmata Chang, tanto tutti sapevano che si trattava di falsificazioni e l’apprezzavano egualmente. Lì per lì qualche cosa di analogo ho pensato a proposito del libro della Newton Compton “Cibo Criminale”, scritto da Mara Monti e Luca Ponzi. Nelle locandine si leggeva, per esempio, che quello che credevamo essere il miglior olio del mondo, cioè un extravergine italiano, in realtà consisteva in una mescolanza di oli spagnoli, greci e tunisini, il tutto rivelato in tono spregiativo. In realtà io ho sempre saputo che il miglior olio d’oliva era quello dell’isola di Creta, in compagnia, appunto, dell’olio spagnolo e di quello greco. Tantissimi anni fa vidi alla televisione un documentario a colori sugli uliveti spagnoli, con particolare accento su quelli in cui si produceva olio italiano. Per convenzione, veniva detto, il miglior olio spagnolo veniva venduto come italiano per spuntare prezzi migliori. Un nostro amico, che possedeva un pezzo di terra, ci disse che l’olio in vendita, in quel periodo, a 4.000 Lire al litro, a lui veniva a costare 8.000 Lire. È chiaro che l’olio venduto come nostrano, in realtà era olio d’importazione. Nessuna notizia particolare ho mai avuto sull’olio tunisino, ma mi sembrava che, essendo praticamente un paese contiguo all’Italia, il suo olio non dovesse troppo differire da quello nazionale. C’erano diversi motivi perché l’annuncio di “Cibo Criminale” non dovesse causarmi allarme, ma
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mi sembrava che, essendo praticamente un paese contiguo all’Italia, il suo olio non dovesse troppo differire da quello nazionale. C’erano diversi motivi perché l’annuncio di “Cibo Criminale” non dovesse causarmi al-larme, ma il sesto senso mi avvertì che quel-lo era un libro da comprare assolutamente. Ed infatti lo comprai, e dovetti constatare che non si trattava soltanto di una truffa al consumatore, bensì di qualche cosa estremamente più grave, che mette in grave pericolo l’esistenza economica dell’Italia intera. Ritengo opportuno cominciare questo articolo pubblican-do, senza cambiare una virgola, l’introduzione posta dagli autori all’inizio del loro libro. (Marino Mariani)
Introduzione (Mara Monti e Luca Ponzi)
La carne di cavallo nelle lasagne alla bolognese e nel ragù delle confezioni di pasta fresca, fino all’ipotesi più inquietante della carne di cane utilizzata per la preparazione dei cibi. Batteri coliformi solitamente presenti nelle feci scoperte in Cina nelle torte al cioccolato dell’Ikea, tranci di carne scaduta da otto anni trovata nei congelatori di un grossista di Milano. Nei primi mesi del 2013 i consumatori si sono dovuti improvvisamente rendere conto di non sapere che cosa stanno mangiando. Normali truffe, qualcuno che voleva liberarsi di carne macinata in eccesso che il mercato non riusciva ad assorbire, qualcun altro che si è accontentato di materia prima poco costosa, senza verificare se fosse contaminata. Invece sono l’esempio di quella che sta accadendo in tempo di globalizzazione. Un tema che interessa particolarmente l’Italia: da sempre il cibo è un vanto per il nostro paese, che si è però accorto di essere fragile e sottoposto ad attacchi concentrici. Da una parte, la grande distribuzione controlla il mercato al dettaglio, determinando i prezzi e di conseguenza gestendo la sopravvivenza dell’intera filiera. Dall’altra, molti commensali famelici vorrebbero spartirsi una torta che vale un giro d’affari di 154 miliardi di euro, pari al 10% del prodotto interno lordo. Questo libro raccoglie alcuni casi di attentati al made in Italy. Come il prosciutto di Parma, apprezzato in tutto il mondo, ma importato dall’estero e trasformato in prodotto locale falsificando il marchio di provenienza. Per nascondere la truffa, un macellaio tunisino che ricattava i suoi capi è stato ucciso. Le mani rapaci del clan dei Casalesi si sono allungate anche sulla mozzarella di bufala campana, consumata perfino in Giappone, inquinata dalle cagliate tedesche spedite in gran quantità in Italia. È gestito dalla camorra anche il riciclo dei formaggi scaduti provenienti dall’Asia e dai paesi dell’Est a destinati a diventare false eccellenze del made in Italy, E poi i pomodori di Pachino che arrivano dal Nordafrica e vengono spacciati come siciliani, così come il triplo concentrato di pomodoro acquistato in Cina per essere inscatolato come prezioso concentrato originario dell’Agro nocerino-sarnese, la patria del Sam Marzano: per la prima volta è stato stabilito che non basta allungare con un po’ d’acqua la passata cinese per poterla marchiare come made in Italy. La casistica annovera anche l’olio spremuto in Grecia, Spagna e Tunisia ed etichettato come prodotto nostrano: alle porte di Siena è stata scoperta la “lavanderia” dell’olio venduto come extravergine senza averne le caratteristiche. La criminalità organizzata è abile e per finanziarsi è riuscita a fare incetta degli aiuti comunitari: per anni nomi di spicco di mafiosi e camorristi hanno incassato i contributi all’agricoltura stanziati da Bruxelles, nonostante non ne avessero diritto. Una serie di situazioni diverse, lungo tutto lo Stivale, caratterizzate da una differenza presenza delle grandi organizzazioni criminali, che aiutano a comprendere i rischi che affrontiamo ogni volta che mettiamo qualche cosa nel piatto. Pochi controlli, risorse limitate per contrastare le frodi, sanzioni risibili: che cosa succederebbe se anche in Italia si potesse ricorrere alla class action? Negli Stati Uniti i consumatori hanno fatto causa alla casa produttrice della birra Budweiser perché scoperta a diluire la birra con l’acqua, “con etichette false quanto al contenuto di alcool dei suoi prodotti. Le grandi società non devono mentire ai clienti. L gente deve ottenere informazioni affidabili sui prodotti che acquista”.: è questo il tono esplicito della denuncia con cui si chiede il risarcimento dei danni a tutti gli acquirenti di Budweiser nel corso degli ultimi cinque anni. Come potrebbe difendersi il made in Italy se anche nel nostro Paese si potesse utilizzare questa potente arma legale?
Apparenza italiana
Italian Soounding: si definiscono così quei cibi che richiamano l’Italia, ma che in realtà italiani non sono. A livello mondiale il giro d’affari dell’Italian sounding supera 80 miliardi di euro l’anno (164 milioni al giorno(, cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti alimentari (23,3 miliardi di euro nel 2009). Ciò significa che per ogni scatola di pelati veramente italiani ce ne sono tre la cui materia prima, pur avendo nomi come Vesuvio o Dolce Vita, è stata coltivata all’estero. E così per la pasta, per l’olio, per i formaggi. Sarebbe sufficiente recuperare una quota del 6,5% dell’italian sounding sul mercato estero per riportare in pareggio la bilancia commerciale dell’agroalimentare. Pomodori tunisini, prosciutti danesi, passate cinesi, olio spagnolo, funghi romeni, formaggi dell’Est vengono importati, puliti e venduti come tipici. Negli Stati Uniti sono falsi mozzarelle e provoloni (il 97%), i sughi per la pasta, la quasi totalità del Pamigiano-Reggiano grattato (96%) senza contare che 1,6 milioni di quintali di latte e cagliate congelate provenienti dall’Europa dell’Est e dalla Germania giungono in oltre cinquanta aziende lattiero-casearie della Puglia. Il giro d’affari dell’agromafia è stimato in 12,5 miliardi di euro l’anno, ma è difficile stabilire dove finisce il falsario, il produttore infedele e dove inizia la criminalità organizzata. “In questo senso, una delle figure più controverse è quella dei cosiddetti colletti bianchi che operano nel settore agroalimentare e che stanno acquistando un ruolo strategico per le organizzazioni criminali inserite nel business delle agromafie e interessate soprattutto a spostare l’asse dell’illegalità verso una zona neutra, di confine, nella quale diviene sempre più difficile rintracciare il reato. Può accadere così che piccoli e grandi produttori di generi alimentari a marchio made in Italy, venduto sul nostro come in altri mercati, acquistino le materie prime all’estero, spesso in paesi la cui qualità e le garanzie a tutela della salute del consumatore sono decisamente inferiori a quelle stabilite nel nostro”. La denuncia parte dagli stessi agricoltori, ma non sono solo loro a pagare il conto salato delle infiltrazioni criminali: “Una mucca trattata con anabolizzanti arriva al macello con 100 chilogrammi in più rispetto ad un capo di bestiame allevato nel rispetto della legge. Il sovrappeso garantisce all’atto della commercializzazione un utile netto di almeno 400 euro a capo”. E noi mangiamo bistecche gonfie di ormoni. Affari la cui regia è saldamente in mano della criminalità organizzata.
Il problema dei mafiosi
“Fra venti, trent’anni, noi scompariremo nel mondo della legalità e godremo della nostra ricchezza senza paura. Quei due bambini che stiamo per battezzare oggi non dovranno mai commettere i nostri peccati e correre i nostri rischi”. Sono le parole che lo scrittore Mario Puzo fa pronunciare a don Domenico Clericuzio all’inizio dell’ “Ultimo padrino”, il romanzo che racconta la modernizzazione della mafia italo-americana. Far riemergere dagli Inferi dello spaccio di droga, del traffico d’armi, dell’estorsione e del commercio di uomini e donne 220 miliardi di euro ogni anno, solo in Italia, è il grande problema della criminalità organizzata. Una partita che i boss stanno giocando da una posizione di privilegio: la crisi ha indebolito l’economia, le banche si sono ritagliate un ruolo marginale puntando alla conservazione e strozzando le imprese. Il sistema è affamato di denaro: la mafia ne ha tanto e lo sa investire. Lo fa anche comprendo terreni agricoli, che rappresentano il 20% dei beni immobili confiscati. Il settore agroalimentare è appetibile per diverse ragioni: la dimensione delle imprese, innanzitutto. Sono piccole, spesso a conduzione familiare, quini più facilmente ricattabili. Oggi sono anche povere. I prodotti della terra, che paghiamo cari nei supermercati, non portano benessere ai coltivatori, ma solo agli intermediari: “Per ogni euro speso dai consumatori per l’acquisto degli alimenti, oltre la metà (il 60%9 va alla distribuzione commerciale, il 23% all’industria di trasformazione e solo il 17% per remunerare il prodotto agricolo”. Ciò rende il commercio particolarmente permeabile ad una criminalità più interessata a gestire l’intera filiera, fino a decidere che cosa arriva sulle tavole degli italiani e a che prezzo. L’intervento di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta inizia già al momento della raccolta nei campi. La rivolta degli immigrati a Rosarno ne è stata la testimonianza più evidente: centinaia di stranieri sono utilizzati nella raccolta degli ortaggi, in Sicilia come in Calabria, in Puglia come in Campania. Al Nord il fenomeno è più evoluto ma certamente non assente. Il caporalato è strutturato attraverso false cooperative di facchinaggio, come quelle impiegate nei macelli della provincia di Modena. Molte di queste imprese sono state gestite da soggetti di origine campana o siciliana e sono finite nella lente delle varie Direzioni distrettuali antimafia (DDA), perché ritenute in qualche modo infiltrate dalla criminalità organizzata. Una volta raccolti i prodotti della terra, sono ancora i clan ad occuparsene: l’inchiesta più eclatante è quella che ha riguardato l’ortomercato di Fondi, nel Lazio. Tutti i camion appartenevano al clan dei Casalesi, dopo un accordo con il fratello di Totò Riina, Gaetano, gli emissari di Matteo Messina Denaro e la ‘ndrangheta rappresentata dalla famiglia Tripo. Un patto tra
mafiosi, a spese dei trasportatori onesti e dei consumatori. E poi c’è la grande distribuzione: Matteo Messina Denaro, considerato l’attuale numero uno di Cosa Nostra, attraverso Pino Grigoli era proprietario del 100% di DESPAR Italia e aveva una cinquantina di supermercati in Sicilia. Nicola Cosentino era sottosegretario all’Economia e alle Finanze nel quarto governo Berlusconi. Una volta decaduto da parlamentare, si è dovuto costituire al carcere di Secondigliano: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. La DDA di Napoli sostiene che l’ex parlamentare del PDL favorisse il clan dei Casalesi. Che cosa volevano boss del calibro di Francesco “Sandokan” Schiavone, Michele Zagaria, Antonio Iovine e Francesco Bidognetti? Costruire un grande centro commerciale a Casal di Principe. D’altronde Schiavone e Zagaria sono avvezzi a fare affari con gli alimentari: tra il 1996 e il 2003 hanno imposto in tutta la Campania il latte Parmalat e per questo sono stati condannati il primo a dieci ed il secondo a 13 anni. I loro uomini hanno bruciato camion, pestato autisti, incendiato magazzini. Eurolat, azienda prima di di Sergio Cragnotti poi di Callisto Tanzi, concedeva ai prestanome dei Casalesi che fungevano da grossisti super sconti, che finivano direttamente nelle tasche del clan. In cambio aveva vendite garantite, ad un prezzo superiore rispetto a quello praticato nel resto d’Italia. “È un livello molto più sofisticato che riguarda più in generale il terziario, poiché arriva a toccare la grande distribuzione al dettaglio con l’imposizione da parte delle organizzazioni mafiose dei propri prodotti nell’intera catena della distribuzione”. Lo hanno segnalato anche i servizi segreti, nella loro relazione annuale al Parlamento: è forte l’interesse straniero per il settore agroalimentare, precisando però poche righe dopo che l’”attuale scenario fluido e globalizzato, è sempre più esposto agli appetiti dei circuiti anche illegali”. Come per il traffico di droga e di esseri umani, anche nel business dei cibi i banditi di tutto il mondo sono pronti a unirsi e collaborare: “Va segnalata la contraffazione alimentare cosiddetta d’importazione, perché conviene molto anche alle mafie lucrare sull’importazione di prodotti provenienti, ad esempio, dalla Cina. Il cosiddetto falso made in Italy non solo è un fenomeno pericoloso per l’economia e per la stessa salute, ma incrementa la possibilità di creare connection tra le mafie che controllano i traffici nei porti della distribuzione italiana e le mafie estere che gestiscono dall’altra parte del pianeta le produzioni adulterare e/o false”. Mafiosi e piccoli truffatori, esperti di sofisticazioni così come di finanza. Il settimanale francese “Le Monde” ha ricostruito il viaggio della carne dei cavalli macellati in Romania fino al Lussemburgo, a un’azienda distante solo 310 chilometri dagli uffici dell’importatori. Eppure, il macinato ha attraversato l’Europa, percorrendo 2.100 chilometri lungo i quali è diventato “manzo” ed è finito nelle lasagne. Sono questi i trucchi dei pirati del cibo.